Una riflessione dello Scrittore Michele Graziosetto
Il nuovo volume di
Silvano Franco, Brigantaggio, Chiesa cattolica e politica dei sovrani spodestati nel
primo decennio unitario 1861 1870, edito da Armando Caramanica, Marina
di Minturno 2017, affronta la vexata
questio riguardante il periodo 1861-1870. È cioè un’indagine circa le
ragioni della secolare divisione politica, culturale economica e sociale fra i
vari Stati preunitari non sanata dalle scelte politiche postunitarie. Argomento
sul quale gli storici hanno speso fiumi di inchiostro e sul quale il Nostro
offre un aggiornato contributo con un occhio rivolto a comprendere le ragioni
dei vinti, ripercorrendo le tappe salienti del brigantaggio, del ruolo svolto
dalla Chiesa cattolica durante e dopo la “rivoluzione giacobina” e degli sforzi
diplomatici degli ex sovrani della penisola compiuti al fine di riavere la
sovranità dei territori sottratti manu
militari. L’Autore parte – giustamente – dall'assioma secondo il quale la Storia
è scritta dai vincitori. Tuttavia, il compito dello storico, vestiti umilmente
i panni dell'interprete super partes,
è sempre quello di ‘entrare’ nelle ragioni di tutti i contendenti schierati in campo, e di penetrare, con occhio
disincantato, le sottintese volontà degli uni e degli altri, con una particolare
attenzione nei confronti di chi subì la violenza militare nei propri Stati,
senza dichiarazione di guerra e con un’iniziativa provocata da un manipolo di
volontari guidato da Garibaldi (con la segreta copertura piemontese), di fede
sia monarchica, sia repubblicana mazziniana, ma anche da giovani in cerca di
avventura.
Capire le ragioni
per le quali quei Sovrani spodestati si appellarono con fiducia al principio di
legittimità e non reagirono immediatamente agli aggressori, anzi in qualche
caso fuggendo, fin dalle prime scaramucce, dai propri domini, non è compito di
poco conto. È vero che unanimemente le Potenze del Congresso internazionale di
Vienna del 1815 sancirono, tra l’altro, il principio di legittimità (su
proposta di Talleyrand), ma è anche vero che qualcuno può osservare che dal
1815 erano trascorsi più di quattro decenni e i popoli, ovvero la società
civile, avevano metabolizzato nuovi valori. Inutile aggiungere che per il loro
raggiungimento erano pronti alla rivolta, così come poi fecero. Basterebbe ricordare
le sommosse del 1848 in Europa e anche a Napoli (ove non era stata dimenticata
la revoca, da parte di re Ferdinando II, della Costituzione da poco concessa).
Quindi, quel
principio legittimista era superato dai tempi e fu miopia sperare da parte dei
vari Sovrani - e in particolare dei Borboni di Napoli - nell'intervento delle
armi straniere per riavere i troni perduti.
Silvano Franco, a
giusta ragione e mantenendo fede al suo impegno, ripercorre le tappe
diplomatiche delle perorazioni e delle proteste degli spodestati. Questi, di
fronte al dinamismo o all’immobilismo delle Potenze europee interessate alle
vicende interne italiche – qualcuna per propri immediati obiettivi, altre per
scopi di più larga visione geopolitica –, pur legati all’impero asburgico e
zarista, non solo no ottennero aiuti a supporto dell’ esercito proprio, ma,
lasciato correre troppo tempo dall’aggressione, subirono lo scacco militare perdendo
irrimediabilmente il titolo della sovranità che reclamavano. Perciò, limitarsi
nei momenti cruciali alle sole vie
diplomatiche, invocare a più riprese l’intervento degli ‘alleati’, non servì
che a favorire il ‘nemico’: insomma, alcuni dei sovrani spodestati, alle prime
sommosse, fuggirono, altri rimasero in attesa, né lottarono in prima persona
anche a costo della morte sul campo, insomma non si opposero fin da subito - hic et nunc - all’aggressione. Era
conseguente che sarebbero risultati soccombenti. Si sa che in tempi di scontro
tra eserciti, il risultato è affidato alle armi. L’inerzia o la fuga di fronte
alla violenza non sono un segnale di coraggio, soprattutto per il regno del
Sud, che pure aveva un esercito di buona reputazione ancora nel 1859 e in grado
di agire con profitto fin dai primi momenti dell’avventura
garibaldina. Solo per informazione (ripresa da A. Petacco), il Sud
aveva l’esercito più numeroso della penisola: circa 93000 soldati, con più di
quattro reggimenti ausiliari di mercenari e una flotta di 11 fregate, 5
corvette e 6 brigantini a vapore, oltre a vari tipi di navi a vela.
Le Potenze, che avevano
partecipato e vinto la guerra di Crimea (e dopo la
sconfitta austriaca del 1859), lasciarono che le sorti della penisola si
decidessero all’interno degli Stati
italiani tra i contendenti in campo. Perciò il Re napoletano rimase
inizialmente come frastornato, né – contestualmente – mobilitò la marina per
bloccare, da Napoli alle Eolie o allo stretto di Messina, i piroscafi dei
Mille. In fin dei conti, si trattava di due navi con un migliaio di volontari.
E si può ipotizzare che una iniziativa regale più incisiva, soprattutto sul
mare, per intercettare il naviglio garibaldino, avrebbe chiuso sul nascere ogni
tentativo di sbarco: era in gioco la sovranità di un Re sul proprio territorio.
E nessun diritto internazionale avrebbe potuto né opporsi né sanzionare quella
difesa.
Fermo restando il
rapporto privilegiato tra il regno delle due Sicilie e il Vaticano e una
formale alleanza con l’impero asburgico e un apprezzamento dell’impero russo
per la neutralità al tempo della guerra di Crimea, questi legami non si
traducevano in concreta alleanza militare. L’unica possibile iniziativa in quel
momento dei primi di maggio 1860 consisteva nella ricerca di alleanze, all’interno della penisola, con gli
stati minori (Toscana, Parma, Modena, Romagna e lo stesso Stato pontificio), almeno per tessere una sorta
di lega militare per difendersi da qualsiasi attacco esterno.
Quindi, il Regno
borbonico, quasi immobilizzato dagli eventi, non costruì per tempo ‘argini’. Né
gli valse alcunché la tardiva concessione della Costituzione (25 giugno), Né l’eroismo
dimostrato, durante la difesa di Gaeta, dalle truppe napoletane con la presenza
del Re e della regina Sofia servì a salvarlo dal naufragio.
Silvano Franco,
delineando attraverso i documenti (consultati presso Archivi vari, tra cui quello
dei Borbone, dello Stato Maggiore dell’Esercito, del Vaticano, Monaco, Dresda,
Madrid) la trama degli avvenimenti europei e in particolare italiani, rimarca
il ruolo del Papa che fu il più tenace oppositore del nuovo Stato, soprattutto
dopo le vittorie garibaldine e la discesa di Vittorio Emanuele II. Egli utilizzò
il suo prestigio morale per denunciare la sua condizione di aggredito, ma poco
fece – essendo il re del suo Stato – per deviare il corso degli eventi, anche
lui prigioniero dell’idea che le Potenze europee non avrebbero permesso soprusi
simili.
E con puntuali riferimenti
il Franco chiosa che quella del pontefice, sul piano pratico, fu un'influenza
di scarso rilievo pratico nella politica interna ed estera della penisola, che
si protrarrà per un periodo piuttosto lungo. Da parte di Pio IX a nulla servì
bollare lo Stato italiano come ‘giacobino’.
Le vicende
militari protrattesi tra gli anni 1859-1861, e in particolare in quelli
successivi alla guerra contro il brigantaggio 1861-1865 (o guerra civile), resero
più difficili le condizioni dei re spodestati orami in esilio. Pur se
continuarono a ribadire le loro petizioni di principio, non tralasciarono
tentativi insurrezionali (specie i Borbone che arruolarono anche truppe mercenarie)
per rovesciare il nuovo Stato.
Il Papa, da parte
sua, tentò fino al 1870 e, dopo la conquista militare di Roma, si ritirò come
‘prigioniero’ nel suo lembo di territorio residuo, di cui non ebbe, con la
legge delle Guarentigie, la sovranità e fu ‘nemico’ per più decenni del regno
d’Italia (1860-1929).
È stato fatale per
i Borboni e per il Pontefice non aver focalizzato che il punto di non ritorno
era stato il ruolo di Cavour per l’intervento nella guerra di Crimea, che
determinò il successivo svolgersi degli avvenimenti. La spericolata adesione piemontese
alla guerra, pur in funzione gregaria e mercenaria, apriva uno spazio nuovo
alle operazioni diplomatiche del Conte, favorite anche dalla contestuale non
ingerenza di Napoli. La scaltrezza e la flessibilità di Cavour, nel dispiegarsi
degli eventi, furono impareggiabili risorse ben messe in evidenza nella
ricostruzione di Silvano Franco. La tessitura della tela unitaria non fu
operazione preordinata. Essa venne costruendosi parallelamente ai fatti
militari e diplomatici ed ebbe più co-attori, tra cui il partito mazziniano,
Garibaldi, Crispi, Depretis e tanti altri democratici di diversa coloritura. Fu proprio Cavour che, con tempismo e moderazione,
seppe continuare a controllare il corso degli eventi, fino al limite massimo in
cui essi potettero essere gestiti. Gli Inglesi ritenevano (riservatamente) il
Conte uno spergiuro, i Francesi poco affidabile. Ma ne accettarono
l’impostazione finale perché essa si declinava nell’alveo monarchico e conservatore
europeo. Solo in quel filone ideologico sarebbe stato possibile realizzare l’obiettivo
unitario (e al quale tenacemente si opponeva l’assolutismo degli imperi
asburgico e russo, cui pure si appellavano i sovrani spodestati).
Fu proprio la
calcolata visione degli equilibri internazionali a permettere al Cavour di rendere
il Regno di Sardegna beneficiario ed erede degli Stati centrali (salvo il
Lazio) e meridionali, anche se la sua prematura scomparsa - a soli 51 anni –
non permise, anzi compromise il disegno di ricollocare l’intero edificio
nazionale nell’alveo di un più maturo livello istituzionale, che, rispettando
diversità di tradizioni e di costumi, con gli anni potesse rendere omogenea la
nuova struttura statuale. Disegno cui non erano estranei gli interpreti più
vicini al pensiero del Conte, tra cui Marco Minghetti.
Molti e complessi
– sottolinea il Franco - furono i problemi che la nuova compagine politica si
trovò ad affrontare e a non risolvere per gran parte. L’Autore li elenca puntualmente
uno per uno: i contrasti con il mondo cattolico, repubblicano, federalista,
legittimista, ma soprattutto con la numerosa classe contadina, in attesa di
migliorare le proprie condizioni di vita.
L'aspetto più
drammatico fu che ognuna di queste componenti politiche rinfacciava alle altre
l’incapacità di compiere scelte sociali ed economiche concrete e ispirate agli
ideali unitari. E tuttavia alcune furono affrontate anche con l’ausilio della brutale
logica delle armi, ma il Sud fu straziato da lunga scia di sangue e da rancori
non placati.
L’aver tenute
fuori dall’organizzazione giuridica e sociale del nuovo Stato tutte le forze
giudicate antisistema
fu la causa prima del distacco delle masse dalle
strutture del nuovo edificio unitario. La partita politica, dopo il 1861, fu
giocata in modo disorganico e contro chi non si allineava. Le continue proteste
dei Sovrani spodestati (pur giuste se rapportate all’ormai obsoleto principio
di legittimità) alimentarono nel popolino (deluso poi dalle nuove e più dolorose
condizioni di vita) l’odio contro gli ‘avventurieri usurpatori’, con il
risultato che questi rimasero padroni del campo, ma i primi furono costretti
all’esilio. Perciò, gran parte delle masse si sentì defraudata di un sogno in
cui pure, anche a livello di opinione e inizialmente con i plebisciti, aveva creduto.
Siamo grati
all’Autore che ci ha permesso di ritornare su questioni che ancora destano
tanto interesse per i tempi e/o le modalità della loro mancata o parziale
soluzione e, soprattutto, per averci proposto la lettura dei documenti di quei
Sovrani, che abbandonati i loro territori supponevano di poterne ritornare in
possesso, dimenticando la lezione che, se non si pongono per tempo gli ‘argini’,
la Storia non perdona né omissioni né inerzie.
Maggio 2018 Michele
Graziosetto
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